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Agguati a impresari di pompe funebri, ultimo atto in Cassazione

CALTANISSETTA. Tornano alla sbarra, per l'ultimo atto in Cassazione, un sospetto ergastolano e suoi presunti fiancheggiatori. Che si ritrovano sul groppone la pesante affermazione di colpevolezza per due agguati: uno andato in porto, l'altro no. In ordine di tempo la prima imboscata è stata tesa all'impresario di pompe funebri Salvatore Calì freddato da un killer solitario - che la giustizia ha riconosciuto nel collaborante di Sommatino, Salvatore Mastrosimone - la sera del 27 dicembre 2008.

L'anno successivo, era sempre un sabato sera, il 28 novembre 2009 un commando è entrato in azione per uccidere il nipote di Calì, Stefano Mosca, che però è riuscito a sfuggire al piombo dei sicari. In questo troncone processuale celebrato con il rito ordinario - mentre un altro a carico di altri imputati s'è svolto in abbreviato - sono alla sbarra presunto organizzatore, manovalanza e fiancheggiatori.
A cominciare da colui che è ritenuto il boss emergente, ovvero Cosimo Di Forte (difeso dagli avvocati Dino Milazzo e Luca Cianferoni) che si ritrova sul groppone una condanna al «fine pena mai». Il teorema della magistratura lo ha etichettato come l'organizzatore delle azione ai danni dei due impresari di pompe funebri.

Già in primo grado, nel febbraio di due anni fa, la corte d'Assise lo ha condannato all'ergastolo. E in quel frangente s'è dato pure alla latitanza, per sfuggire all'ordine di carcerazione scattato subito dopo la lettura di quel primo dispositivo. Quella nei suoi confronti è stata una caccia all'uomo andata avanti quasi tre mesi, fin quando la polizia lo ha catturato nel sottotetto di un'abitazione, a San Cataldo, che sarebbe appartenuta alla madre dello stesso Di Forte.

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