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Addio a Liz Taylor, l'ultima grande diva del cinema

La leggendaria attrice è morta per una crisi cardiaca all'età di 79 anni. Famosa per i suoi innumerevol matrimoni e per i suoi occhi violi, ha saputo incarnare come nessun'altro lo star system di Hollywood

LOS ANGELES. Con Elizabeth Taylor, morta oggi a 79 anni, scompare una delle più grandi dive di Hollywood,  l'ultimo prodotto del vecchio 'star system' capace di forgiare un'attrice e la sua immagine nei minimi dettagli ed in maniera così sottile e penetrante da condizionarne, inevitabilmente, la vita privata.    C'é una specularità costante tra la Liz dello schermo e la Liz della vita: di entrambe emerge, sia pure attraverso le mille sfumature apparse nel corso degli anni, l'immagine di una donna bella, ricca, privilegiata ma allo stesso tempo sola, alla ricerca disperata di affetto e di sicurezza.   


Fu la Metro Goldwyn Mayer ad adottarla quando era ancora piccola, a coccolarla e educarla come si fa con la figlia prediletta: aveva appena 11 anni quando interpretò il suo primo film, 'Torna a casa Lassie'' (1943), e subito, con il suo volto angelico incorniciato dalla chioma bruna e con i suoi occhi di un intenso blu violetto, divenne la beniamina del pubblico. La "diva bambina" era diligentemente impegnata in storie di animali, lacrimosi drammi domestici e adolescenziali, romanzetti per famiglie: da 'Gran premio' (1944), dove al posto del celebre collie aveva al fianco un purosangue, a 'Vita col padre' (1947), da 'La bella imprudente' (1948), alla trasposizione cinematografica di 'Piccole donne' (1949).  Ma poi anche la piccola Taylor crebbe: lo fece sotto gli occhi del pubblico che la vide trasformarsi da ragazzina ingenua e petulante a giovane sensuale e elegante, protagonista di tante commedie nel ruolo di moglie, amante o madre. Vincent Minnelli la volle nel dittico 'Il padre della sposa' (1950) e 'Papa' diventa nonnò (1951); per George Stevens recitò in 'Un posto al sole'(1951), per Stanley Donen in 'Marito per forza', (1952) per Richard Brooks nell' 'Ultima volta che vidi Parigi' (1954), ancora per Stevens nel 'Gigante' (1956). A partire da questo film, che la vedeva accanto al mitico James Dean, Liz Taylor passò a interpretazioni drammatiche dove era spesso alla ricerca disperata di una compagnia maschile dominante che non sempre riusciva a ottenere. Le sue crisi affettive furono sempre devastanti e altamente conflittuali.  


Sotto lo sfavillio di abiti e gioielli Liz incarnava il mito del 'femminino hollywoodiano': il suo interesse preminente era essere donna, piacere agli uomini, dai quali cercava  sicurezza e protezione. Ed in questo senso si differenziava da tante sue colleghe caratterialmente più mascoline come Katharine Hepburn, Bette Davis, Susan Hayward, tutte capaci di farsi strada come avvocati, capitani di industria, manager.    La sua fama crebbe a cavallo tra gli anni '50 e '60: nell' 'Albero della vita' (1957) di Dmytryk, Liz era una corvina signora della Louisiana ossessionata dal dubbio di avere sangue negro nelle vene, una pericolosa 'dark lady' che rappresentava gli aspetti negativi del sud. Seguirono i due film tratti dai drammi di Tennessee Williams: 'La gatta sul tetto che scotta' (1958) di Richard Brooks e 'Improvvisamente l'estate scorsà (1959) di Mankiewicz. Buona parte della critica vi ha trovato le migliori interpretazioni della Taylor: la scrittura opulenta dei testi da cui furono tratti, i dialoghi sardonici, la sapiente commistione di analisi socio-psicologica e melodramma sociale, i personaggi tormentati, fornirono l'alveo ideale per incanalare la sua energia interpretativa. La recitazione di Liz, dominata da una foga inquieta e senza sbocchi - notarono i recensori - finì per contagiare l'intero ritmo dei due film.


Nel 1960 'Venere in visone' di Mann le portò il primo oscar e nel 1963 'Cleopatra', il film multimiliardario girato a Cinecittà che dissanguò la Fox, la consacrò diva per eccellenza. Si calcola che il suo compenso di allora fu 1 milione di dollari. Sul set del film nacque la tempestosa storia d'amore con Richard Burton con cui recitò ancora in 'International hotel' (1963), in 'Chi ha paura di Virginia Woolf?' (1966), che le valse il secondo Oscar, e nella 'Bisbetica domata' (1967) di Zeffirelli.     Fino agli inizi degli anni 70 la carriera della Taylor proseguì tra successi e grandi registi: Huston, 'Riflessi in un occhio d'orò (1967), Losey, 'La scogliera dei desideri' (parodia della volgarità di Hollywood) e 'Cerimonia segreta', (entrambi del 1968) ed ancora Stevens con 'L'unico gioco in citta" (1970).   Cominciò quindi un lento declino in cui gli aspetti mondani e sentimentali della vita privata sembrarono prendere il sopravvento sulla carriera artistica.


Del resto gli otto matrimoni, i relativi divorzi, i flirt, le cure di bellezza (su cui ha anche scritto un libro) e i lifting, l' abuso di pillole e di alcolici, le malattie e le nevrosi di Liz hanno sempre fatto notizia sui rotocalchi, così come i suoi innumerevoli interventi chirurgici. Ma a differenza di altre attrici, come Judie Garland o Marilyn Monroe che furono schiacciate dall'alcolismo e dalle nevrosi, Taylor riuscì a superare, anche se con difficoltà, i momenti drammatici e a restituirsi al mondo dello spettacolo. Quando la sua carriera cinematografica cominciò a declinare, si dedicò al teatro riuscendo a provocare grande fragore e ottenendo un buon successo personale.   

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