TAORMINA. Ordine tassativo: nessuna domanda sulla vita privata. E quindi chi già era pronto a chiedere se fosse stata la gallina Rosita a causare la rottura con Antonio Banderas, ha dovuto ripiegare su domande meno dirette perché Melanie Griffith, in attillato tailleur pantalone nero - le maniche lunghe a coprire il tatuaggio sul braccio dedicato all'ex marito - mai avrebbe risposto ai tentativi di intrusione nella fine del suo matrimonio. Non rimaneva, durante la Taoclass della sesta giornata del TaorminaFilm Fest, che rifugiarsi in un excursus professionale di Melanie, bellezza dalla fragilità distruttiva, capricciosa. «Ho iniziato 40 anni fa e ho frequentato grandi registi: Penn, Lumet, De Palma, Redford. Amo i ruoli brillanti, forse ho sbagliato nel voler provare a farmi prendere seriamente, ignorando che ero seria anche facendo la commedia».
Certo, è sempre «Una donna in carriera»: «Harrison Ford era così sexy, così bello e così... sposato. Io ci ho provato ma non c'è stato nulla da fare». Ricordando un documentario materno sull'emancipazione femminile, non ha dubbi nell'affermare: «Le donne sono più intelligenti degli uomini e noi donne di spettacolo dobbiamo dare voce a chi non ne ha». Le sono appena saltati due lavori: «Meg Ryan ha tagliato la scena che avrei dovuto interpretare in "Ithaca", suo debutto alla regia. Di "Akil" non so nulla». Si tratta, per la cronaca, del terzo lungometraggio di Banderas. Vira su sentieri meno impervi: «Mia madre, Tippi Hedren, è stata un'attrice famosa eppure non mi ha mai trascurata, ma io ho faticato per conquistare credibilità. È successo anche a mia figlia Dakota, che ha superato quella fase e sta per girare "50 sfumature di grigio». A sua madre deve due incontri importanti, Hitchcock e Sofia Loren: «Avevo cinque anni e, a Natale, il regista mi regalò uno scrigno con una bambola tipo Barbie dentro. In realtà, la scatola era una bara e la bambola aveva il viso di mia madre. La Loren l'ho conosciuta sul set de "La contessa di Hong Kong", assieme a Chaplin, e la rividi a 12 anni quando andai a trovarla e fu con me molto gentile, accogliente».
La sua comicità di grana grossa, fisica, piace: per Ben Stiller ci sono stati ieri grandi applausi, soprattutto quando scorrevano le immagini di «Zoolander». E lui ha assicurato: «Da almeno dieci anni lavoro al sequel, prima o poi lo finirò». L'Oscar non va mai alle commedie: «Lo ha fatto in passato con "Io e Annie", spero succeda in futuro». Vede nelle webseries un'opportunità: «Per i giovani con un budget minimo che possono subito cercare il proprio pubblico su internet». Un altro figlio d'arte: «Ho sempre bazzicato l'ambiente dello spettacolo, i miei genitori sono entrambi attori: mio padre più protettivo, mia madre più pronta a incoraggiarmi. Avrei giurato che da grande sarei diventato regista, Scorsese e Coppola sono i miei miti. Ma ho aggiunto il lavoro di attore e produttore». Quando si cimenta dall'altra parte della macchina da presa mostra quel piacere di girare che è di Clint Eastwood: «Ci somigliamo molto, lui ha solo girato qualche western in più di me».
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