CALTANISSETTA. «Il movente terroristico è stato quello di destabilizzare il Paese al fine di individuare nuovi referenti per l’organizzazione mafiosa, essendo venuti meno i pregressi canali con il mondo politico a seguito dell’esito "infausto" per Cosa Nostra del maxi-processo». Lo spiega, a proposito della strage di Capaci, Amedeo Bertone, procuratore a Caltanissetta, in una intervista al Corriere della Sera. «In particolare - prosegue Bertone -, l’omicidio dell’ onorevole Salvo Lima, il 12 marzo 1992, forniva un segnale chiaro e inequivocabile di Riina alla politica. I «vecchi equilibri» erano saltati, e secondo lo scellerato proposito di Cosa Nostra dovevano crearsene di nuovi proprio attraverso la strategia stragista che, di lì a breve, avrebbe avuto inizio. Ma come è emerso nel corso del dibattimento Capaci-bis, la scelta di Riina di realizzare l’attentato in Sicilia, sospendendo la cosiddetta «missione romana», è stata determinata solo da ragioni di «comodità» per Cosa Nostra, consistite nei positivi sviluppi della attività preparatoria all’attentato portata avanti da Giovanni Brusca e dal suo gruppo». «Per la strage di via D’Amelio - fa sapere anche Bertone - è accaduto qualcosa di peculiare che non si è verificato per la strage di Capaci. Verosimilmente, non hanno funzionato quei "fisiologici" meccanismi di controllo e verifica progressiva degli elementi acquisiti. In particolare, l’attività della polizia giudiziaria non è stata adeguatamente filtrata dal vaglio dell’ufficio inquirente e le risultanze delle indagini della Procura, nel loro complesso, non sono state adeguatamente valutate». Mandanti occulti? «Le suggestioni, non bastano, servono prove». Il procuratore di Caltanissetta sottolinea comunque che le inchieste sono ancora aperte: «Sulla morte di Falcone le indagini non si fermano».