Avrebbero gestito terreni dei parchi delle Madonie e dei Nebrodi per conto della mafia, ricevendo anche finanziamenti comunitari per la gestione di imprese agricole riconducibili a cosa nostra.
I finanzieri del Gico del Nucleo di Polizia economico-finanziaria di Caltanissetta, in collaborazione con il servizio centrale investigazioni sulla criminalità organizzata, coordinati dalla direzione distrettuale antimafia, hanno eseguito dodici misure cautelari, ma complessivamente sono 23 gli indagati. Gli arrestati sono 11, di cui 6 in carcere e 5 ai domiciliari, c'è infine un divieto di esercizio dell'attività professionale nei confronti di un notaio. Il provvedimento è stato firmato dal gip di Caltanissetta.
Tra gli arrestati ci sono alcuni appartenenti e altri fiancheggiatori di cosa nostra. È stato disposto anche il sequestro di immobili, aziende, beni e disponibilità finanziarie per un valore di circa 7 milioni di euro.
Ecco chi sono gli arrestati. Custodia cautelare in carcere per Antonio Di Dio (del 1987), Domenico Di Dio (1959), Giovanni Giacomo Di Dio (1994), Giacomo Di Dio (1984), Giuseppe Sivillo Fascetto (1978), Caterina Primo (cl. 1958). Arresti domiciliari per Salvatore Dongarrà (1962), Carmela Salermo (1971); Rodolfo Virga (1961), Ettore Virga (1993), Domenico Virga (1963).
L'inchiesta, che trae origine dall'indagine Nibelunghi sempre del Gico della Gdf tra metà 2017 e inizio 2018, sul sistema illecito di gestione di terreni e contributi agricoli da parte di "Cosa Nostra" nella zona delle Madonie e dei Nebrodi, riguarda la gestione con l'utilizzo di metodi mafiosi dalla famiglia Di Dio (5 arrestati) originaria di Capizzi, ma abitanti nella provincia di Enna.
Ai Di Dio è stato contestato il concorso esterno in associazione mafiosa con riferimento ai rapporti con numerosi esponenti di famiglia mafiose tra cui in particolare quella dei fratelli Virga, del mandamento di San Mauro Castelverde. Le indagini hanno accertato anche il ruolo svolto da un notaio catanese che si sarebbe "prestato a stipulare ripetuti atti falsi che hanno costituito il presupposto per la realizzazione di svariate truffe aggravate ai danni dell'Agea, consentendo alla famiglia Di Diodi accaparrarsi circa 600 ettari di terreno all'interno del Parco delle Madonie, di proprietà del demanio".
Il modus operandi utilizzato - dicono gli investigatori - rispondeva ad un ben preciso canovaccio: "Gli indagati utilizzavano aziende agricole intestate a loro o a loro congiunti al fine di concludere contratti fittizi di compravendita o di locazione di terreni, in realtà, direttamente riconducibili a soggetti mafiosi, consentendo mediante detto meccanismo di interposizione fittizia di dissimulare l'effettiva disponibilità dei cespiti in capo ai coindagati al fine di sottrarli alla possibile emissione di provvedimenti di sequestro o a misure di prevenzione patrimoniali".
Gli indagati - dice l'accusa - utilizzavano i terreni così ottenuti e le aziende a loro facenti capo al fine di presentare domande finalizzate all'ottenimento di contributi comunitari di sostegno all'agricoltura, utilizzando anche terreni di proprietà demaniale e versando parte dei corrispettivi ottenuti ai componenti del sodalizio mafioso.
In alcuni casi i terreni demaniali venivano sfruttati dagli indagati e rivenduti, pur senza alcun titolo (trattandosi di beni di proprietà dello Stato), all'Ismea (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare) - a sua volta un ente pubblico - attraverso l'utilizzo di atti falsi che hanno consentito l'illecita riscossione di ingenti somme di denaro.
Una parte di questi beni, sottratti fraudolentemente allo Stato, sono poi stati ricomprati da altri membri della famiglia Di Dio che hanno continuato a sfruttarli fino ad oggi risultando, agli atti di registro, quali legittimi proprietari di beni che, in realtà, rientrano nel patrimonio dello Stato.
Nell'operazione è stato disposto il sequestro di 900 ettari di terreni, fabbricati, beni, 9 aziende agricole per un valore complessivo di circa 6,5 milioni di euro ed è stato effettuato il sequestro per equivalente su disponibilità finanziarie degli indagati per un totale di circa 430 mila euro.
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