Non reggono le accuse di omicidio scattate a carico del figlio boss di Riesi. È stato il «Riesame» a inferire il colpo di spugna all'ordinanza di custodia cautelare che, per questa inchiesta, dal gennaio scorso inchioda in carcere uno dei rampolli del clan Cammarata. Su lui pende dell'altro, ma è storia diversa. Le dichiarazioni rese da un neo collaborante riesino, pure lui indagato per questo omicidio, non avrebbero trovato riscontri.
A questa conclusione è giunto il tribunale del Riesame di Milano che ha annullato il provvedimento cautelare che pendeva su quarantaduenne di Riesi, Giuseppe Cammarata (assistito dagli avvocati Vincenzo Vitello e Adriana Vella), figlio del boss Pino.
Per gli inquirenti sarebbe stato tra gli esecutori dell'agguato consumato poco più sei anni e mezzo ai danni dell'albanese Lamaj Astrit, scomparso nel gennaio 2013 da Genova quando aveva 41 anni, i cui resti solo nel gennaio scorso sono stati ritrovati murati dentro un pozzo artesiano di una villetta di Senago, nel Milanese.
Già nel luglio scorso la Cassazione, accogliendo il ricorso dell'avvocato Vincenzo Vitello, ha annullato la misura cautelare rimandando gli atti al tribunale per un nuovo esame. E i giudici, adesso, sarebbero giunti alla conclusione che non sarebbero emersi «riscontri individualizzanti» sullo stesso Cammarata in relazione al racconto reso dal neo collaboratore di giustizia Carmelo Arlotta.
Da qui l'annullamento dell'ordinanza per Giuseppe Cammarata che, al centro di questa inchiesta condotta dai carabinieri dei Nuclei investigativi di Monza e Caltanissetta, è finito insieme a un manipolo di riesini.
L'articolo completo nell'edizione di Agrigento, Caltanissetta ed Enna del Giornale di Sicilia di oggi.
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