È ritenuto il regista di quel delitto di mafia, che sarebbe stato ordinato un po' per vendetta e un po' per salvare la pelle. Sì, perché sarebbe stato anche un modo di anticipare e neutralizzare un presunto progetto di attentato nei suoi confronti. E per giudicare questi elementi sarà processato. Così ha deciso il gup Valentina Balbo su richiesta del pm Maurizio Bonaccorso. Queste, secondo l'impianto accusatorio, le ragioni che avrebbero animato il boss di Campofranco, il sessantacinquenne Domenico «Mimì» Vaccaro (assistito dall'avvocato Antonio Impellizzeri) che avrebbe voluto l'uccisione del montedorese Gaetano Falcone, assassinato il 13 giugno di ventuno anni fa. Un omicidio a cui gli inquirenti hanno accostato anche la figura del cugino della vittima, il settantunenne boss di Montedoro. Lui che - secondo l'impianto accusatorio - nella veste di rappresentante della famiglia mafiosa montedorese avrebbe offerto il suo placet per la missione di morte con obiettivo il cugino. E un collaborante, il campofranchese Maurizio Carruba, ha riferito ai pm di avere convinto egli stesso Vaccaro a recarsi da Nicolò Falcone - cugino della vittima - per ottenere il consenso ad eliminare il parente. Tesi che la difesa del boss montedorese ha sconfessato mettendo fortemente in discussione le teorie dei collaboratori di giustizia. Secondo gli inquirenti, passando per un'analisi un po' più generale, l'omicidio Falcone, «il piccolo« di Montedoro, sarebbe in qualche modo figlio di quella spaccatura creatasi in Cosa nostra dopo la cattura di Totò Riina avvenuta il 15 gennaio 1993. E da quel momento si sarebbero formati due gruppi contrapposti. L'articolo completo nell'edizione di Agrigento, Caltanissetta ed Enna del Giornale di Sicilia di oggi.