Ancora misteri sulla strage di via D’Amelio. Il procuratore aggiunto di Caltanissetta, Gabriele Paci, smentisce l’ex collaboratore di giustizia Maurizio Avola che ieri, nel corso dell’intervista andata in onda su La7, ha tra l’altro affermato di avere partecipato alla fase esecutiva della strage di Via D’Amelio, insieme a Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Aldo Ercolano e altri.
Il magistrato sottolinea che questa circostanza era stata riferita per la prima volta da Avola nel corso di un interrogatorio lo scorso anno, davanti ai magistrati della Dda nissena, «a distanza di oltre 25 anni dall’inizio della sua collaborazione con l’autorità giudiziaria». Gli accertamenti disposti dalla procura, finalizzati a vagliare l’attendibilità di dichiarazioni riguardanti una vicenda «ancora oggi contrassegnata da misteri e zone grigie», per Paci, «non hanno allo stato trovato alcuna forma di positivo riscontro che ne confermasse la veridicità».
Piuttosto, dalle indagini demandate alla Dia, evidenzia Paci, «sono per contro emersi rilevanti elementi di segno contrario che inducono a dubitare tanto della spontaneità quanto della veridicità del suo racconto». Cita un fatto il procuratore aggiunto di Caltanissetta: l’accertata presenza di Avola a Catania, «addirittura con un braccio ingessato, nella mattinata precedente il giorno della strage, là dove, secondo il racconto dell’ex collaboratore egli, giunto a Palermo nel pomeriggio del venerdì 17 luglio, avrebbe dovuto trovarsi all’interno di una abitazione di una abitazione sita nei pressi del garage di via Vaillasevaglios, pronto, su ordine di Giuseppe Graviano, a imbottire di esplosivo la Fiat 126 poi utilizzata come autobomba».
Conclude Paci: «Colpisce peraltro che Avola, anzichè mantenere il doveroso riserbo su quanto rivelato a questo ufficio, abbia preferito far trapelare il suo asserito protagonismo nella strage di Via D’Amelio, oltre a quella di Messina Denaro, Graviano e altri, attraverso interviste e la pubblicazione di un libro. Lascia altresì perplessi che egli abbia imposto autonomamente una sorta di 'discovery' compromettendo così l’esito delle future indagini, dopo che l’ufficio aveva provveduto a contestargli le numerose contraddizioni del suo racconto e gli elementi probatori che inducevano a dubitare della veridicità di tale sua ennesima progressione dichiarativa».
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