«C’è ansia, c’è trepidazione. C’è il senso del dramma dell’uomo che si affida all’uomo. Perché ci coinvolge emotivamente e questo coinvolgimento emotivo porta dietro di sé il rischio di impedire, inibire, di sviluppare quella capacità di essere obiettivi e freddi quale si conviene in un giudizio di appello. Sciascia diceva: il giudice non deve tenere conto dell’opinione pubblica, però non può fare a meno di tenerne conto». Così l’avvocato Ninni Reina, legale di Silvana Saguto, ex presidente della sezione Misure di prevenzione antimafia del Tribunale di Palermo, nel corso dell’arringa difensiva del processo sul cosiddetto «Sistema Saguto» che si celebra a Caltanissetta, dinanzi alla Corte d’appello presieduta da Marco Sabella. Saguto, accusata di corruzione e abuso di ufficio nella gestione dei beni confiscati alla mafia, in primo grado è stata condannata a 8 anni e 6 mesi.
«Mi ha impressionato un articolo - ha continuato Reina - che, il giorno dopo la requisitoria del procuratore generale, uno dei giornalisti ha scritto commentandola, quasi iniziando un confronto su chi si deve prendere il merito di una sentenza di condanna che è ritenuta ineludibile, certa. Lo scontro tra una procura che dice: è merito mio; e una discussione mediatica che dice: no, se non ci fossimo stati noi questo processo non ci sarebbe stato. Cioè, qui si discute sul merito“
«Nel maggio del 2015 - ha continuato Reina - c’è la prima trasmissione mediatica. Dai giornalisti viene puntato il dito su quello che viene visto come un mercimonio della funzione, perché il marito di un magistrato è coadiutore giudiziario in amministrazioni della dottoressa Saguto. Questo dà l’input alla vicenda. Ma che reato c’è se l’amministratore giudiziario, in amministrazioni che non sono palermitane, indica come coadiutore il marito. Quale illecito penale compie? Dovrebbe dire a suo marito ‘tu l’ingegnere qua non devi farlo?’ L’unica misura che era a Palermo era la Buttitta, che risaliva però al 2008, affidata all’avvocato Cappellano Seminara da altro collegio».
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