«Se gli appunti sui verbali in possesso di Vincenzo Scarantino non erano tutti farina del suo sacco, ci dica Fabrizio Mattei chi altro ci ha messo mano. Sono passati 30 anni, se c'è stato dell’altro ditelo». L’ha detto nel corso della requisitoria, ripresa questa mattina, il pm Stefano Luciani nel processo che vede imputati tre poliziotti, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, per il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Secondo l’accusa, i tre ex componenti del gruppo «Falcone Borsellino», assistiti dagli avvocati Giuseppe Panepinto e Giuseppe Seminara, avrebbero indotto Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso, mediante minacce, pressioni psicologiche e maltrattamenti. Il pm Stefano Luciani si è soffermato nel corso della requisitoria sugli appunti che Fabrizio Mattei avrebbe scritto di proprio pugno sui verbali in possesso di Scarantino. In un primo tempo il poliziotto, secondo la ricostruzione dell’accusa aveva detto che erano stati interamente scritti da lui per poi dire che non erano tutti suoi. L’accusa - di cui sono chiamati a rispondere davanti al Tribunale collegiale presieduto da Francesco D’Arrigo - è di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. «Mattei - ha aggiunto il pm Luciani - non ha detto il vero quando ha tentato di disconoscere la paternità di queste scritture poste a margine. Se si arrivano a rendere dichiarazioni che vengono smentite dalla realtà dei fatti evidentemente una motivazione c'è. Non puoi rispondere in esame con un “non lo so” se ti viene chiesta se è tua la paternità di quelle manoscritture. Allora Mattei non diceva il vero nel 1994». Per l’accusa è stato il più grande depistaggio della storia italiana. Una definizione forte, la stessa che venne usata anni fa dalla corte d’assise che, per la prima volta in una sentenza, puntò il dito sul clamoroso tentativo di inquinare le indagini sulla strage di Via D’Amelio, uno dei crimini più efferati commessi da Cosa nostra. Gli imputati rispondono di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia nel quinto dibattimento istruito sull'attentato in cui, ormai quasi trent'anni fa, persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. «Mi scuso in anticipo con le parti civili perché la requisitoria che mi accingo a fare certamente non sarà adeguata a quella che sarebbe dovuta essere la conclusione di un processo di questa portata», ha detto ieri il pm Luciani che ha ricordato i «numeri» del dibattimento: 70 udienze, 112 testimoni, 4.900 pagine di trascrizioni. Per l'accusa i fatti emersi sono chiari. Furono vessazioni preordinate e finalizzate a costruire falsi collaboratori di giustizia e una falsa verità sulla strage che solo le rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza riuscirono poi a smascherare. «Fu Spatuzza - dice Luciani - a raccontare una verità che da subito è apparsa dirompente. Ed era una verità che andava a sconvolgere ben due processi che si erano già celebrati per la strage di via D’Amelio, una verità che andava a mettere in discussione condanne all’ergastolo comminate sulla base di prove manipolate. Infatti, era stata manipolata la collaborazione di Salvatore Candura, quella di Francesca Andriotta e infine quella di Vincenzo Scarantino». Luciani ha poi ricordato le vessazioni subite durante la detenzione a Pianosa da Scarantino, piccolo spacciatore assurto, nella falsa ricostruzione degli investigatori, al rango di boss al corrente dei più oscuri segreti della stagione stragista. «I suoi precedenti - spiega il pm- erano assolutamente distonici rispetto al quadro che si è voluto rappresentare. Scarantino ha subito un pressing asfissiante. Interrogatori costanti e ripetuti, plurimi procedimenti penali, condanne per traffico di droga perché mentisse accusando persone che con la strage non c'entravano nulla». A Scarantino, ne è certa la Procura, fu fatto recitare un copione col quale chiudere in fretta l’indagine sulla strage e assicurare colpevoli facili alla giustizia. «Più andavo avanti e più bravo diventavo», ha ammesso il finto pentito ai pm. Una frase che la procura cita perché, per gli inquirenti, Scarantino non è una vittima. Contribuì al depistaggio, contribuì a inquinare l'inchiesta. «"Mi hanno fatto studiare, mi dicevano quali erano le contraddizioni, mi hanno preparato”. Erano queste le parole di Vincenzo Scarantino. Tutto questo lavoro di indottrinamento, di aggiustamento di dichiarazioni nei confronti di Vincenzo Scarantino è servito per fare condannare la gente all’ergastolo», ha detto il pm Luciani. «Mario Bo - ha continuato Luciani - era il supervisore dell’attività fatta illegalmente, illecitamente da Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Ce lo conferma la ex moglie di Vincenzo Scarantino, Rosalia Basile, e lo stesso Scarantino. È una verità che emerge dai documenti che abbiamo mostrato, che sono tutti attribuibili, tutti senza alcun dubbio, a Fabrizio Mattei sulla base della consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero e non smentita dalla consulenza di parte. La difesa, da canto suo, non offre elementi per sgravare di responsabilità Mattei. E se mai residuasse un micro margine di dubbio, quella menzogna che ha retto per oltre 20 anni è spazzata via da Gaspare Spatuzza che ci dice che Scarantino aveva mentito».