«Sono assolutamente estraneo ai fatti contestatemi in questo processo, che già mi ha procurato non pochi danni fisici e morali. La mia unica responsabilità, se tale si può considerare, è di avere sempre svolto i miei doveri istituzionali con la massima dedizione e con la piena osservanza delle leggi, alle quali ho prestato giuramento di fedeltà al momento del mio ingresso nell’amministrazione». Lo ha detto il funzionario di polizia Mario Bo, imputato insieme ad altri due colleghi nel processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio che si svolge a Caltanissetta. Bo questa mattina ha deciso di rendere dichiarazioni spontanee. Per il funzionario di polizia, difeso dall’avvocato Giuseppe Panepinto, la procura di Caltanissetta ha chiesto 11 anni e 10 mesi, mentre per gli altri due poliziotti Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo 9 anni e 6 mesi ciascuno. «Nel corso di questo processo - ha continuato Bo - è emerso che ho fatto parte del gruppo Falcone-Borsellino, che si occupava delle indagini relative alle stragi di Capaci e Via D’Amelio, solo dalla seconda metà del 1993, tornando a Palermo di rientro dal ben più tranquillo incarico di dirigente del Commissariato di Polizia di Volterra, ricoperto dal 1992, allorquando venni trasferito alla Questura di Pisa, in accoglimento di una mia risalente domanda di trasferimento che avevo inoltrato per venire incontro ai desideri della mia allora coniuge, non già per asseriti contrasti con il dottor Arnaldo La Barbera per come capziosamente rappresentato da un teste». Arnaldo La Barbera allora era a capo del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino. «La mia totale buona fede - ha proseguito l’imputato - mi supporta ancora, certo che la verità verrà ampiamente accertata. Innanzitutto, voglio precisare di essermi occupato delle indagini sulle stragi solo dopo giugno 1993», ha aggiunto Bo. «Nel febbraio 1989 - ha detto - dirigevo la sezione catturandi della squadra mobile di Palermo, contribuendo alla cattura di diversi latitanti di mafia, tra i quali Mariano Marchese, Pietro Salerno, Salvatore Prestifilippo e Giovanni Drago. Sempre nel corso di quegli anni effettuammo numerosi servizi di appostamento per la cattura del latitante Francesco Tagliavia. In occasione del famoso decreto Andreotti che consentì di trarre in arresto numerosi boss mafiosi che erano stati scarcerati per decorrenza dei termini, provvidi personalmente a catturare Michele Greco, detto il “papa”». Bo ha ripercorso il periodo prestato all’interno del gruppo. «Una volta al commissariato di Volterra fui assalito da sentimenti di inquietudine e quasi rimorso - ha affermato - per aver lasciato i miei colleghi in quella drammatica situazione conseguente alla stagione delle stragi. Per questo, quando si presentò la necessità di ricoprire un posto di funzionario, decisi di offrire la mia disponibilità e così fui inserito nel gruppo investigativo Falcone-Borsellino». L'imputato ha aggiunto che «la prima attività di indagine che svolsi risale al mese di settembre 1993, su delega della dottoressa Ilda Boccassini, ed ebbe ad oggetto tutta una serie di accertamenti e di riscontri, alla casa circondariale di Busto Arsizio, alle dichiarazioni già rese da Francesco Andriotta. Successivamente, nel mese di dicembre 1993, mi recai al carcere di Pianosa per un colloquio investigativo, che il detenuto Vincenzo Scarantino aveva chiesto di effettuare con il pm. Ricordo che nelle prime ore di una domenica mattina, libero dal servizio, ricevetti una telefonata dal dottor Arnaldo La Barbera che mi ordinava ad horas di recarmi presso quel penitenziario perché Scarantino aveva chiesto di conferire, per urgenti comunicazioni, con la dottoressa Boccassini, la quale, però, al momento risultava indisponibile. Riuscii miracolosamente ad organizzare il viaggio in giornata che mi consentì di arrivare sull'isola nel cuore della notte». Mario Bo è anche entrato nel merito delle accuse: «Nei due colloqui investigativi di Pianosa e Termini Imerese - ha detto - Vincenzo Scarantino non ha manifestato la volontà di collaborare. Peraltro, sommando il tempo trascorso con lui durante i due colloqui, durati più o meno un’ora ciascuno, è evidentemente impossibile avergli fornito le copiose informazioni dallo stesso trasfuse nel famoso interrogatorio del 24 giungo 1994, durante il quale sembrava un “torrente in piena”, come lo hanno definito i soggetti presenti». Il poliziotto ha parlato poi di un altro incontro. «Successivamente - ha detto - rividi Scarantino il 26 luglio 1995 a San Bartolomeo a Mare in tarda mattinata, per informarlo che nel pomeriggio ci saremmo recati insieme a Genova, dove ci attendeva il dottore Petralia per un interrogatorio, così come mi aveva anticipato il magistrato il giorno precedente. Ritengo che volesse interrogarlo in merito all’articolo di un quotidiano che riportava un presunto alibi che avrebbe scagionato Gaetano Scotto dalla sua partecipazione alla strage». Sull’incontro Mario Bo si è soffermato a lungo. «Al momento del mio arrivo nella località protetta ero assolutamente ignaro - ha raccontato - del fatto che Scarantino avesse avuto contatti con i propri familiari in ordine ad una sua probabile ritrattazione, poiché, come noto, non vi erano più in corso intercettazioni telefoniche a carico degli stessi. Le uniche notizie che erano pervenute al nostro ufficio erano relative ad un suo improvviso “innervosimento”, del quale non erano stati specificati i motivi, che imputammo alle sue continue e petulanti richieste in ordine alla sua sistemazione logistica e finanziaria. Alla luce di tali considerazioni - ha concluso Bo - è evidente che il teste giornalista Mangano abbia quanto meno sovrapposto i propri ricordi, dal momento che nessun appartenente alla polizia di Palermo poteva conoscere le interlocuzioni avvenute tra il 25 ed il 26 luglio 1995 tra Scarantino, i propri familiari e lo stesso Mangano». Il riferimento è ai contatti di Scarantino con il giornalista Angelo Mangano, al quale aveva confessato che dietro alle sue dichiarazioni c'erano le pressioni della polizia. Bo ha anche detto che «Vincenzo Scarantino, interrogato al carcere di Pianosa, si dichiarò estraneo ai fatti contestatigli: al che, ricordo, di avergli chiesto il motivo che lo aveva indotto a chiedere di conferire con l’autorità giudiziaria. Senza fornirmi alcuna spiegazione, continuò nella sua linea di difesa, aggiungendo che non riusciva a reggere le condizioni carcerarie e la lontananza dalla propria famiglia». Il racconto prosegue: «La volta successiva in cui ho incontrato Scarantino fu in occasione di un secondo ed ultimo colloquio investigativo effettuato nel carcere di Termini Imerese, in occasione della traduzione di Scarantino per presenziare ad un processo a Palermo che lo vedeva coinvolto in un traffico di droga. In questa occasione, come ebbi modo di attestare nella mia relazione di servizio, agli atti del presente processo, Scarantino continuò a dichiararsi estraneo alla strage, mantenendo la stessa linea che aveva adottato nel precedente colloquio del mese di dicembre». E ancora: «Mi congedò con una frase sibillina affermando che avrebbe meditato circa una sua eventuale collaborazione se fosse venuto a conoscenza di “tradimenti” da parte di sua moglie. È singolare - ha poi aggiunto il poliziotto - che Scarantino, nel corso di questo processo, abbia affermato di escludere categoricamente di avermi incontrato a Termini Imerese, fatto che, invece, è provato documentalmente, a differenza di altri presunti e asseriti incontri con me, che non hanno avuto riscontro probatorio alcuno poiché, in effetti, non sono mai avvenuti». Dai primi colloqui con Vincenzo Scarantino fino all’aggressione a San Bartolomeo a Mare, Bo ha ripercorso i momenti maggiormente significativi dei suoi contatti con il falso pentito. «Dopo l’aggressione che subii a San Bartolomeo a Mare da parte di Vincenzo Scarantino - ha detto Bo - nel pomeriggio del 26 luglio 1995 chiesi e ottenni dalla Procura di Caltanissetta e dal Servizio centrale di protezione di estromettere il gruppo Falcone-Borsellino dai servizi di assistenza nei suoi confronti e del suo nucleo familiare, e da allora non l’ho più rivisto». Poi Bo si è soffermato su Francesco Andriotta: «L'ho visto per la prima volta il 16 settembre del '94 nel carcere di Paliano - ha affermato -, quindi un anno dopo l’inizio della sua collaborazione, in occasione di un interrogatorio. L’ho poi rivisto solo nel 1998 per evadere mirate deleghe dell’autorità giudiziaria inerenti presunte minacce da lui subite. In tale occasione, non venne neppure affrontata la vicenda della strage». Bo ha aggiunto che risulta «assolutamente fantasioso e non vero l’episodio riferito da Andriotta su un incontro all’esterno del carcere di Rebibbia la notte del 25 dicembre 1997, in occasione del quale gli avrei consegnato una somma di denaro». «Altrettanto priva di fondamento - ha sostenuto Bo - è la dichiarazione che fa Andriotta in relazione a presunti nostri incontri in istituti carcerari per notificargli atti relativi al suo programma di protezione. Per quanto riguarda l’ultimo mio accusatore, Salvatore Candura, tengo a precisare - ha osservato Bo - di non averlo mai incontrato di persona, nemmeno in occasione del suo arresto, avvenuto il 5 settembre 1992, poiché non ho mai partecipato alla fase iniziale delle indagini sulla strage di via D’Amelio».