«A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile ad una attività materiale di cosa nostra». È uno dei passaggi delle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, depositate dai giudici del tribunale di Caltanissetta, dedicato alla sparizione dell’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino. «Ne discendono - scrive il tribunale - due ulteriori logiche conseguenze. In primo luogo, l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda. Gli elementi in campo non consentono l'esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda, ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e, per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario od opportuno sottrarre». «In secondo luogo,- concludono- un intervento così invasivo, tempestivo (e purtroppo efficace) nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire - non oggi, ma già nel 1992 - il movente dell’eccidio di via D’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a cosa nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni, evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage (che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di via D’Amelio».
Il verdetto
La sentenza è stata emessa a luglio scorso. Il collegio dichiarò prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti finiti sotto processo per l’inquinamento dell’inchiesta, e assolse il terzo imputato, Michele Ribaudo. Erano imputati di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia. Il venire meno dell’aggravante determinò la prescrizione del reato di calunnia. Il provvedimento è lungo oltre 1400 pagine. Secondo la Procura, rappresentata in aula dal pm Stefano Luciani, gli imputati, che appartenevano al pool incaricato di indagare sulle stragi del '92, con la regia del loro capo, Arnaldo La Barbera, poi deceduto, avrebbero creato a tavolino i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, imbeccandoli e costringendoli a mentire e ad accusare della strage persone poi rivelatesi innocenti: da qui la contestazione di calunnia. Il castello di menzogne costruito grazie ai falsi collaboratori di giustizia avrebbe aiutato, per i pm, i veri colpevoli a farla franca e coperto per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano. E per questo ai tre poliziotti la Procura imputò l'aggravante di aver favorito Cosa nostra. Aggravante che non resse al vaglio del tribunale e determinò la prescrizione del reato contestato a due dei tre imputati. Il terzo fu assolto nel merito con la formula «perché il fatto non costituisce reato».
«Amnesie generalizzate in uomini dello Stato»
I giudici del tribunale di Caltanissetta hanno sottolineato «l'obiettiva ritrosia di molti soggetti escussi - non solo spettatori degli avvenimenti dell’epoca, ma anche attori, più o meno centrali, delle vicende oggetto di esame - a rendere testimonianze integralmente genuine che potessero consentire una ricostruzione processuale dei fatti che fosse il più possibile vicina alla realtà di quegli accadimenti». «Tra amnesie generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni (soprattutto i componenti del Gruppo investigativo specializzato Falcone-Borsellino della polizia di Stato), - spiegano - e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite da risultanze oggettive e da inspiegabili incongruenze logiche, l'accertamento istruttorio sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative, rispetto alle quali si profila problematico ed insoddisfacente il riscontro incrociato».
«Il simbolo della verità nascosta»
«La ricostruzione del passato - scrive il tribunale di Caltanissetta - è stata spesso manipolata al fine di fornire una interpretazione dei fatti che è funzionale alla tutela di interessi non alti, ma altri rispetto alla ricostruzione autentica di tanti eventi cruciali e cupi degli ultimi decenni di storia del nostro Paese. La strage di via D’Amelio, tragica nel suo esito umano e deflagrante sul piano politico istituzionale dell’epoca in cui si consumò, ne è esempio paradigmatico e pone un tema fondamentale, quello della verità nascosta, o meglio non completamente disvelata». E ancora: «L'odierno collegio - spiegano i giudici - ritiene che il diritto alla verità possa definirsi un fondamentale diritto della persona umana nell’ambito del quale si fondono, fino a modificarsi geneticamente quando entrano in contatto, sia la prospettiva individuale, delle vittime e dei loro familiari, che quella collettiva».
Il legale della famiglia: «Sentenza epocale»
«Non ho ancora letto tutta la sentenza. Perciò mi riservo di valutarne il contenuto. Ma uno sguardo sommario alle motivazioni mi fa pensare che si tratti di una sentenza epocale». È il giudizio dell’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino che dal 2015 segue l’inchiesta sui depistaggi per la strage di via D’Amelio. «Quando cominciai a occuparmene - dice - non pensavo che si potesse arrivare a questo risultato. È una sentenza di primo grado, e bisogna quindi aspettare gli altri gradi di giudizio, ma credo che sia stato compiuto intanto un passo importante».