Caltanissetta

Venerdì 22 Novembre 2024

Le armi sequestrate dopo l'arresto di Contorno a Palermo, Genchi: «Furono manipolate»

Gioacchino Genchi

«In quanto alle armi sequestrate a seguito dell’arresto di Totuccio Contorno venni a conoscenza del fatto che vi erano state delle operazioni di manipolazione per far sì che venissero modificate. Arnaldo La Barbera mi parlò di armi portate ad Ostia, riempite di sabbia affinché poi non vi fosse corrispondenza con gli esiti balistici delle ogive che erano state rinvenute sui cadaveri degli omicidi avvenuti prima della cattura di Contorno». A raccontare delle fasi immediatamente successive l’arresto di Totuccio Contorno, rispondendo alle domande del pm Maurizio Bonaccorso, è l’avvocato ed ex poliziotto Gioacchino Genchi, sentito oggi come teste nell’udienza del processo sul depistaggio delle indagini della strage di via D’Amelio. Il processo che si celebra a Caltanissetta dinanzi alla Corte d’appello, presieduta da Giovambattista Tona, vede imputati tre poliziotti appartenenti all’ex gruppo di indagine Falcone-Borsellino guidato da Arnaldo La Barbera. Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo sono accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito la mafia per aver imbeccato il falso pentito Vincenzo Scarantino al fine, secondo l’accusa, di costruire una falsa verità sulla strage. «Con La Barbera a capo della squadra di Palermo - ha continuato Genchi - l’attività di intelligence venne trasferita a me. Non potendo intercettare tutte le cabine telefoniche ne abbiamo disattivate diverse per circoscrivere quelle dalle quali i mafiosi potevano chiamare. E ce n’era una che era una miniera d’oro di informazioni».

Strage di via D'Amelio, per La Barbera si dovevano chiudere indagini

«La strategia di Arnaldo La Barbera era vestire il pupo. Chiudere, fregarsene di tutto e di tutti e chiudere le indagini. Perché a Roma volevano che si facesse così», ha detto Gioacchino Genchi sulle indagini per via D'Amelio. «La mia fonte - ha detto Genchi, rispondendo alle domande del pm Maurizio Bonaccorso, applicato alla procura generale - era La Barbera stesso. Mi spiegò che a Roma stavano prendendo atto, non piacevolmente, del coinvolgimento di Contrada, nelle indagini. Erano preoccupati perché Contrada era stato sempre un uomo delle istituzioni e c’era la paura di quello che poteva tirare fuori. Contrada era stato mollato, era stato espulso dal sistema, che a quel punto si doveva ricompattare. L’imminente arresto di Contrada diede il via a una marcia indietro. E’ da quel momento che iniziano le certezze di La Barbera di avere la promozione, inizia il tentativo di chiudere e di semplificare le cose, di vestire il pupo come disse lui stesso». «Arnaldo La Barbera aveva preso una deriva e non stava lavorando per i miei fini che erano i fini istituzionali. Io non accettavo minimamente di trasgredire a quelli che erano i miei doveri istituzionali». «La Barbera - ha continuato Genchi - era stato istruito dal procuratore di Caltanissetta sui contenuti della sentenza del maxi processo che portava in modo automatico ad attribuire a Cosa nostra qualsiasi evento fosse avvenuto a Palermo. Tutto ciò che c’è nelle dichiarazioni di Mutolo, che portava a un ruolo equivoco di Contrada e altri appartenenti allo Stato, doveva essere sottaciuto perché si doveva chiudere così per poi avere la promozione e andare via da Palermo. Perché si doveva confezionare il pacco. Ricordo una frase di La Babera “L’ultima cosa che farò”, quando andrò via, sarà fare un giro in elicottero per fare la pipì sulla questura di Palermò. Siamo tra la fine del ‘91 e l’inizio del ‘92 - precisa Genchi - La Barbera cercava di andare via da Palermo e non lo svincolavano perché non trovavano un successore». «La Barbera - ha aggiunto poi Genchi - era portatore di direttive precise, su questo voglio essere chiaro, non ha mai fatto nulla se non sotto la direzione diretta del capo della polizia. La Barbera ha eseguito direttive sempre e non ha mai agito autonomamente. Oggi è troppo facile processare i morti e questa è l’unica certezza che ho».

«Per me l'agenda rossa di Borsellino non era nella borsa»

«Per quanto riguarda l’agenda rossa l’unica interlocuzione è stata con il dottore Fausto Cardella che mi prese una borsa dall’armadio e mi fece vedere all’interno una batteria affumicata e un costume in nylon con i lacci. E mi chiese un’opinione e io dissi che, secondo me, quella batteria non era nella borsa ed era stata solo lambita. Se l’agenda fosse stata dentro la borsa il costume avrebbe dovuto incendiarsi prima della carta. Quindi, secondo me, l’agenda non era dentro la borsa se si è bruciata. Il costume era sicuramente dentro la borsa ma l’agenda no», ha ha detto l’avvocato Gioacchino Genchi, rispondendo alle domande dell’avvocato Fabio Trizzino, sull’agenda rossa di Paolo Borsellino. Quest’ultima, che secondo i familiari del giudice era dentro la borsa al momento della strage, non è mai stata ritrovata.

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