C’erano piantagioni di marijuana sparse dappertutto. Gela era circondata da «erba» utilizzata da Cosa nostra come merce di scambio con la ‘ndrangheta calabrese la quale in cambio cedeva cocaina. C’erano serre seminate nella zona del lago Biviere, ad Acate, in contrada Carrubba e a Settefarine, un quartiere alla periferia di Gela tra i più popolati. È uno dei particolari che emerge dal blitz antimafia «Ianus» coordinato dalla Dda di Caltanissetta e condotto dalla polizia che ha eseguito 55 misure cautelari, l’ultima delle quali ieri mattina. A Gela è stato infatti arrestato Angelo Lorefice, 34 anni, martedì sfuggito alla cattura.
La produzione della marijuana era il core business delle cosche ed era tutto «Made in Gela». La conduzione spettava esclusivamente ai gelesi che oltre ad esportare la droga in Calabria, la spacciavano nei comuni limitrofi. A gestire serre e depositi, in nome della «pax mafiosa», erano sia gli Emmanuello che i Rinzivillo. Tra le quattro piantagioni individuate dagli inquirenti, una sorgeva nei pressi del lago Biviere, a pochi chilometri da una riserva naturale, una delle più importanti zone di sosta e svernamento per numerose specie di uccelli migratori. Ma questo poco importava ai mafiosi di Gela, interessati più che altro a discutere di traffici di droga, possibili ricavi e periodi di semina della cannabis, così come emerge da un’intercettazione della polizia tra due indagati che fanno anche cenno, alla possibile quantità di droga che avrebbero potuto gestire in quel periodo, circa 30-40 chili. I due però, non soddisfatti della quantità di marijuana prodotta, insaziabili come nessuno, si lamentavano dell’eccessiva lentezza di alcuni operai. Uno dei due indagati era anche preoccupato perché tra le piante di marijuana «ni mureru gualchi seicentu» anche se era riuscito a rimpiazzarle con altre «mille e cincu». Nel corso di un sopralluogo, uno degli indagati, appurò che vi erano cinque sacchi neri, pieni di stupefacente pari a 19 chili. Una vera e propria azienda perché in quel terreno non solo si produceva la marijuana ma poi il sito veniva utilizzato anche per lo stoccaggio.
Oltre alla piantagione di contrada Biviere, l’organizzazione disponeva di un’altra coltivazione di cannabis a Settefarine e a gestirla erano sempre gli stessi affiliati. Chiaramente erano interessati anche alla qualità. Uno di loro chiese se la droga presa in consegna era «bella» e il suo interlocutore, nel dargli dello stupido, replicò che era quella che avevano visto in giornata. Poco dopo si soffermarono su alcuni lavori da effettuare in una grande piantagione e uno, in particolare, osservò che per estirpare tutte le piante, occorreva «un misi di travagghiu» con «deci persuni fissi». Inoltre, spiega che per trasportare tutta la marijuana, occorreva fare due viaggi con un camion, mentre forse era meglio farla «pizziddra pizzuddra», in modo da poterla riporre all’interno di alcuni sacchi. Una volta effettuato il lavoro avrebbero aperto, per festeggiare la buona riuscita del loro business «na bella buttiglia». La droga doveva essere trasportata da Settefarine ad Acate.
La produzione di marijuana era talmente tanta che uno degli indagati, messo a capo della gestione delle piantagioni, era così sicuro del fatto suo che avrebbe potuto soddisfare qualsiasi richiesta. Se qualcuno gli avesse chiesto «cinqucentumila euru di marijuana», l’avrebbe accontentato anche perché, del resto, lui era «il numero uno» in quell’attività.
Tuttavia a destare preoccupazione non era la serra di Settefarine ma quella di Acate perché «i sbirri ogni tantu talianu», quindi bisognava prestare grande attenzione. I due poi fanno quattro conti. Uno dei due propose quindi di conservare il denaro in due sacchi sottovuoto e di riporre gli stessi all’interno di altrettanti trolley. Se «chista botta» fosse andata a buon fine, avrebbero potuto ricavare oltre «centu» chilogrammi di marijuana, il cui valore veniva stimato da lui stesso in «quasi centocinquantamila euro».
Al clan Rinzivillo era destinata metà della produzione, mentre l’altra fetta di torta sarebbe toccata agli Emmanuello. Eventuali dissidi venivano invece affrontati in una polleria, dove il titolare era chiamato alla risoluzioni delle problematiche che nascevano all’interno del sodalizio. Un uomo di polso che anche durante la sua detenzione avrebbe continuato a gestire il traffico di stupefacenti riuscendo ad intrecciare una serie di legami che avrebbe messo a frutto dopo la sua scarcerazione. Un uomo in possesso di un kalashnikov che aveva acquistato a Catania per 2.500 euro e che custodiva nella campagna di uno zio. E sempre in quella polleria, situata a pochi passi dal centro storico di Gela, si tenevano i summit con i catanesi e al quale, spesso, partecipava anche il reggente del clan Rinzivillo, Giuseppe Tasca.
Intanto ieri, 11 dei 55 indagati, comparsi davanti al Gip del Tribunale di Caltanissetta, Santi Bologna, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Si tratta dei gelesi Nicola Palena, Alessandro Peritore, Mirko Salvatore Rapisarda, Giovanni, Rocco e Samuele Rinzivillo e Romano Vincenzo, degli agrigentini Gianluca Attardo, Gioacchino Giorgio e Morena Milazzo e del rumeno Marius Vasile Martin. Ad assisterli gli avvocati Flavio Sinatra, Maurizio Scicolone, Salvo Macrì, Angelo Cafà, Calogero Meli, Emanuele Alessandro Famà, Calogero Lo Giudice, Debora Speciale e Francesco Lumia.
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