
«Ho iniziato ad occuparmi delle vicende di mafia su Palermo solo nel ‘93, perché fino alle stragi, ero inserito nella Dda ma mi occupavo della guerra di mafia nell’Agrigentino. Sentiì Lo Cicero dopo le stragi, non prima di allora, e inizialmente non si trattò di una vera e propria collaborazione».
È quanto affermato da Vittorio Teresi, magistrato in pensione, che nel 1992 era sostituto procuratore a Palermo, nell’ambito della seconda udienza, svoltasi a Caltanissetta, di un altro processo per depistaggio, nato dalla falsa pista nera, quella che ipotizzava la regia del terrorista neofascista Stefano Delle Chiaie, nella progettazione ed esecuzione della strage di Capaci, pista finita con l’archiviazione.
Gli imputati sono un ex maresciallo dei carabinieri, Walter Giustini, e Maria Romeo, ex compagna del collaboratore di giustizia Alberto Lo Cicero (nel frattempo deceduto). I due imputati sono assistiti rispettivamente dagli avvocati Sonia Battagliese ed Emilio Buttigè.
Teresi risulta anche come persone offesa. Rispondendo alle domande dei pm, Pasquale Pacifico e Nadia Caruso, l’ex magistrato, chiamato a gestire il collaboratore Lo Cicero, ha chiarito che non è mai emerso il nome di Stefano Delle Chiaie.
«Se i carabinieri, i collaboratori o qualunque altro mi avessero fatto il nome di Delle Chiaie, come un personaggio agganciabile alla strage di Capaci – ha detto Teresi - certamente la mia attenzione sarebbe stata particolarmente alta, e se fosse avvenuto prima della strage di via d’Amelio ne avrei parlato con Borsellino, che era il mio procuratore aggiunto. Conoscevo bene l’ansia, la determinazione con la quale Borsellino andava a caccia di qualunque notizia potesse in qualche modo riguardare, spiegare, far capire ciò che era avvenuto a Capaci, e quindi la ragione della strage. Per me sarebbe stato un obbligo morale ancora più forte di quello giuridico, riferirgli qualunque dettaglio».
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