«La legge bavaglio non garantisce gli innocenti». Parola di Santi Bologna, Gip al Tribunale di Caltanissetta, già giudice estensore della sentenza di primo grado sul depistaggio di via D’Amelio, giudice nel processo Montante e presidente della sezione dell’Anm di Caltanisetta.
Noi giornalisti la chiamiamo “Legge Bavaglio” voi giudici?
«Al momento non è ancora una legge. È una delega al governo ad eliminare il regime che dal 2017 prevede la piena pubblicabilità delle ordinanze cautelari emesse dal Gip, introducendo un divieto di pubblicazione, anche per estratto, di queste ultime. Non è un bavaglio, sia perché i giornalisti potranno continuare a riportare il contenuto delle ordinanze cautelari parafrasandone il testo, sia perché nulla esclude che si “tornino” a riportare negli articoli di giornale i virgolettati delle richieste cautelari dei pm. Al di là del refrain sul bavaglio, c’è qualcosa di più grave, è una legge che peggiora la tutela della presunzione di innocenza. Gli indagati, che già solo dal coinvolgimento in un procedimento penale possono subire un danno ingiustificato, se non colpevoli, correranno l’ulteriore rischio di subire una lesione del diritto a non essere sottoposti a distorsioni accusatorie proprio a causa dalla parafrasi delle ordinanze cautelari che la nuova norma, di fatto, impone ai giornalisti».
Ci sono due interpretazioni della norma, una estensiva e una restrittiva secondo lei qual è la via giusta?
«Bisognerà leggere il testo finale. Se, come si ventila, dovesse passare l’emendamento che, nel divieto di pubblicare” integralmente o per estratto” l’ordinanza di custodia cautelare, sostituisce alla parola “per estratto” la parola “parzialmente” non vi sarebbero molti margini per riportare virgolettati, anche brevi, delle ordinanze cautelari emesse dal Gip».
Grazie alle ordinanze di custodia cautelare si è costruito un marketing giudiziario a favore delle procure sulle spalle di presunti innocenti?
«Esattamente l’opposto. Prima del 2017 e della pubblicità delle ordinanze cautelari esisteva un vero e proprio sottobosco giudiziario nel quale i provvedimenti giravano senza alcuna regolamentazione e arrivavano per vie sotterranee non a tutti i giornalisti, ma solo ad alcuni cronisti c.d. fidati. Con la nuova norma si corre il rischio di ripiombare nel passato, spingendo i cronisti a tornare ad attingere solo alle solite fonti (richieste dei PM e annotazioni di polizia giudiziaria) senza autentico spirito critico sull’operato degli inquirenti».
L’emendamento Costa prevede il divieto delle pubblicazioni delle intercettazioni contenute nelle ordinanze ma anche che le ordinanze siano blindate fino all’udienza preliminare. È una ulteriore restrizione sotto il vessillo del garantismo?
«La nuova norma non ha alcuna funzione garantistica. Anziché dire che il divieto di pubblicazione vuole evitare che soltanto la versione dell’accusa transiti nelle ordinanze cautelari, il che è già una falsità perché il Gip svolge un primo filtro, sia pure in assenza di contraddittorio, perché non si rendono pubblicabili le ordinanze del tribunale del riesame? Per i non addetti ai lavori, sono quelle ordinanze adottate da un giudice collegiale che, a distanza di poco tempo dalla privazione della libertà personale, confermano o annullano il provvedimento del GIP sulla base degli argomenti introdotti dalle difese nel contraddittorio tra le parti.
Quale secondo lei una soluzione di equilibrio?
«Smetterla con l’ipocrisia e abolire la categoria degli atti non più coperti dal segreto, ma non ancora pubblicabili. Si tratta di una proposta che ha come padre proprio un giornalista, Luigi Ferrarella e che mira ad assicurare parità di trattamento e libera concorrenza fra gli organi di informazione. Io la condivido in pieno e penso che la liberalizzazione dell’accesso agli atti non più segreti elimina in radice il passaggio – o la presunta dipendenza – dalle fonti più o meno interessate, responsabilizzando sia la magistratura nella redazione dei provvedimenti e nella selezione degli atti da allegare, sia i giornalisti, posti tutti sullo stesso piano di fronte alle carte depositate e “obbligati” a misurarsi con l’oggettività “delle carte” e con i doveri deontologici sulla pubblicazione del solo materiale di interesse pubblico. Inoltre, indagati, testimoni, vittime sarebbero più tutelati nella loro dignità di persone da un sistema di regole trasparenti piuttosto che da “brandelli” di notizie».
Il pericolo delle notizie di contrabbando come si sposa con il diritto all’informazione?
«Non si sposa. Se si torna al sottobosco nel quale il giornalista deve essere “scelto” dal “contrabbandiere”, aumenterà il rischio che il giornalista si senta in debito e soprattutto che la fonte della notizia possa essere interessata e, perciò, non obiettiva, dando luogo a sua volta a una visione parziale e strumentale della vicenda processuale e quindi a un’informazione parziale, talora persino distorta».
Perché si è arrivati a questo punto?
«Perché non si è saputo o voluto pesare la reale natura degli interessi in gioco. È vero che la peculiarità della cronaca giudiziaria, tanto per la difficoltà tecnica dei temi trattati, quanto per la immediata incidenza sulle situazioni soggettive dei soggetti coinvolti, impone particolare attenzione. Ma non è ponendo divieti ai cronisti che si risolvono le criticità dell’informazione giudiziaria. La fonte primaria di percezione all’esterno dell’azione della magistratura e più in generale del servizio giustizia, è (e deve rimanere) il motivato provvedimento giudiziario. Lo dico da Gip, chi svolge questa funzione deve essere più attento degli altri nel giudizio perché non può scordare la necessaria provvisorietà delle proprie conclusioni, derivante dall’assenza di un contraddittorio pieno che si ha solo nel dibattimento. La pubblicità dell’ordinanza cautelare ha posto i gip dinanzi alla sfida, purtroppo non sempre vinta, di saper coltivare una cultura di adeguatezza della motivazione rispetto alla specifica funzione di ogni singolo atto processuale, eliminando dalle ordinanze cautelari quelle “scorie” di indagine non funzionali a dimostrare i gravi indizi di colpevolezza, ma solo ad abbellire l’ordinanza con sottintesi e richiami utili a trasformare la stessa in una notizia accattivante. Bisognava, semmai, lavorare su questa “cultura” della motivazione, non vietare la pubblicazione delle ordinanze».
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