Il boss di Campofranco ricorre al Riesame. Con lui anche altri suoi sospetti fiancheggiatori, a cominciare dal nipote. A impugnare la misura cautelare colui che è ritenuto il capo di Cosa nostra a Campofranco, Angelo Schillaci, 61 anni. Lui già toccato, in passato, dalle indagini «Grande Oriente» e «Urano», secondo gli inquirenti nel 2001, dopo l’arresto di Domenico «Mimì» Vaccaro, ha raccolto l’eredità come rappresentante provinciale di Cosa nostra.
Una «famiglia», quella di Campofranco, che secondo lo spaccato tracciato dall’accusa si stava sì ricostituendo ma con non poche difficoltà. Lamentando non solo la mancanza di quattrini, ma anche di armi. «Una pistola, non abbiamo neanche grana per acquistare una pistola», è lo sfogo, raccolto in una intercettazione, del presunto più stretto uomo di fiducia del capomafia, Claudio Di Leo. «Io neanche una pistola ho, un morso di pistola me l’ha dovuta prestare mio cugino... gli ho detto «scendimi la pistola a casa che non si sa mai che io abbia bisogno… qua siamo tutti senza stigli” …», è Schillaci a rincarare la dose.
Al Riesame si sono rivolti anche il nipote del boss, Calogero Schillaci, 44 anni, il milenese Gioacchino Cammarata di 54, il campofranchese Calogero Maria Giusto Giuliano, 72 anni e il castelterminese Vincenzo Spoto, 66 anni (avvocati Antonio Impellizzeri, Giuseppe Scozzari, Carmelo Amoroso e Giuseppe Bongiorno) in carcere da quando è scattato il blitz dei carabinieri. Non hanno fin qui avanzato istanza Claudio Rino Di Leo, 64 anni, il milenese Paolino Giuseppe Santo Schillaci di 56, i campofranchesi Gian Luca Lamattina, 51 anni e Fabio Giovenco di 51, entrambi ai domiciliari (avvocati Dino Milazzo, Pietro Sorce, Maria Vizzini, Damiano Manta e Ferdinando Milia) quest’ultimo ancora in attesa che il gip David Salvucci si pronunci sulla richiesta di revoca della misura cautelare.
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