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Mafia, il clan di Mazzarino terrorizzava il paese e le donne dei boss smistavano gli ordini

Svelate due lupare banche: una delle vittime fu mutilato davanti ai figli del capocosca

Quando la faida tra Stidda e Cosa nostra in provincia di Caltanissetta seminava sangue. E adesso, dopo trent’anni e più, due lupare bianche tra gli anni Ottanta e Novanta non sono più «cold case». Lo scacco inferto dai carabinieri al clan Sanfilippo di Mazzarino ha squarciato i veli anche su due misteri della Stidda. Legati alle uccisioni di Benedetto Bonaffini – era il 15 giugno dell’84 – e di Luigi La Bella intorno al 18 agosto del ’94. Il primo picchiato e poi strangolato in contrada Salamone. Il secondo attirato in trappola, pestato a sangue, torturato e mutilato sotto gli occhi dei figli del boss – secondo gli inquirenti - a quel tempo ragazzini. Il corpo sarebbe stato poi gettato in un pozzo di contrada Montagna. E il nonno, il boss ergastolano Salvatore Sanfilippo, a capo dello stesso clan, si sarebbe vantato con il nipotino di 11 anni «… mi sono preso.. prima di tutto, mi sono preso la laurea di chirurgo senza anestesia».

E su questo passaggio il procuratore facente funzione Roberto Santi Condorelli ha rimarcato come il ragazzino andasse fiero «della laurea del rispetto del nonno...». Ora come allora le rivelazioni di un pentito, Gaetano Branciforti, sono state al centro delle indagini. Ma se in passato non avevano trovato riscontro, tanto che quel fascicolo è stato poi archiviato, adesso le intercettazioni raccolte dai carabinieri – coordinati nelle indagini dai sostituti Claudia Pasciuti e Davide Spina - avrebbero blindato le vecchie dichiarazioni del collaborante, finite al centro di questo nuovo dossier.

Un clima, quello che i Sanfilippo avrebbero creato a Mazzarino, etichettato dagli inquirenti come «oppressivo verso la popolazione con una forte tendenza all’omertà». Già, per paura tutti avrebbero taciuto. Anche chi avrebbe subito estorsioni, torti o angherie. «La forte pressione estorsiva che la famiglia esercitava sul territorio, soffocava l’economia locale ma anche la semplice vita quotidiana», ha evidenziato il colonnello Vincenzo Pascale, comandante provinciale dei carabinieri.

Tutti sarebbero stati accondiscendenti. Compresi i medici di Mazzarino – due sono stati sospesi da sei a nove mesi dall’attività professionale, mentre un terzo è indagato ma senza alcuna misura – che avrebbero firmato certificazioni facili per fare intascare indennità di malattia a componenti del clan. Come nel caso di due Sanfilippo, Paolo e Salvatore Adamo, assunti come muratori da una ditta nissena di costruzioni. Si sarebbero presentati in ritardo in cantiere o avrebbero dormito durante i turni. Così il datore di lavoro li avrebbe prima lasciati a casa ma poi, intimidito dagli stessi due cugini, avrebbe suggerito loro «di mettersi in malattia» così da sgravare l’impresa da quei costi. Un primo medico di famiglia avrebbe rifiutato di rilasciare quelle certificazioni, intuendone le ragioni. E così il suo assistito, Salvatore Adamo Sanfilippo in particolare, avrebbe chiesto all’Asp il cambio del medico di base, scegliendone un altro ritenuto più accondiscendente. E in effetti, poi, quelle false certificazioni mediche le avrebbe ottenute.

E nel clan le donne avrebbero avuto un ruolo tutt’altro che marginale. Le «signore» della Stidda. A cominciare dalla moglie del capomafia stiddaro, Beatrice Medicea, che insieme ad altri parenti avrebbe impartito agli affiliati gli ordini che il marito dettava dal carcere. O la sorella dei Sanfilippo che avrebbe preteso che il gruppo tartassasse con estorsioni. Lei che ogni anno – secondo le lagnanze delle cognate – il 2 novembre avrebbe preteso 500 euro per addobbare le tombe dei parenti. Quattrini, anche questi, che sarebbero arrivati dalle estorsioni. Altre donne ancora del clan sarebbero state attive sul fronte droga, coltivazione compresa, e anche nei contatti con fornitori calabresi.

L’affare della droga, l’attività più «moderna» del clan, avrebbe costituito uno dei fronti più redditizi per il gruppo. Già in un arco ristretto di tempo, tra le quattro e le cinque settimane monitorate dai carabinieri, sarebbe stato acquistato qualcosa come un chilo di cocaina venduta a 38 euro al grammo con consegna spesso a Gela. E per l’acquisto della sostanza, la moglie del boss avrebbe gestito la cassa comune del clan.

Dalla droga, al pizzo e alla più tradizionale mafia agricola. Fronte da cui sono partite le indagini dei carabinieri tutela agroalimentare. Stiddari pronti a scoraggiare i proprietari perché cedessero i loro terreni. E in uno degli episodi in questione, un avvocato, nel maggio di sei anni fa avrebbe contattato per conto di Liboro Sanfilippo due coniugi e avrebbe spiegato loro «che era necessario fare un favore», perché riducessero di due ettari il terreno nel loro contratto d’affitto, così da fare subentrare gli stessi Sanfilippo per ottenere poi contributi.
E la cosca mafiosa non avrebbe mai abbandonato gli affiliati più fedeli ma detenuti, sostenendo economicamente le loro famiglie. Denaro sporco per Maurizio, Andrea, Salvatore, Giuseppe e Calogero Sanfilippo e Gianpaolo Ragusa. I quattrini sarebbero arrivati anche dal clan Guerra di Cinisello Balsamo che, con il traffico di droga, avrebbe movimentato qualcosa come 4 milioni l’anno.

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