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Depistaggio sulla strage di via D'Amelio: accuse prescritte per due poliziotti, un altro assolto

La sentenza, che arriva a una settimana dal trenteesimo anniversario, scontenta quasi tutti. Ed è l’ennesima occasione persa nella ricerca della verità sulla strage di Via D’Amelio, costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della sua scorta.

Il depistaggio ci fu

Undici ore di camera di consiglio sono servite al tribunale di Caltanissetta per dire che il depistaggio delle indagini sull’attentato ci fu e che a commetterlo furono due poliziotti: Mario Bo e Fabrizio Mattei, oggi imputati. Ma la prescrizione, scattata per il venir meno dell’aggravante di mafia, li salva dalla condanna. Mentre esce assolto per non aver commesso il fatto Michele Ribaudo, terzo imputato, collega di Bo e Mattei ai tempi dell’inchiesta sugli attentati del 1992. Secondo la Procura, rappresentata dai pm Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso, gli imputati, che appartenevano al pool incaricato di indagare sulle stragi di Capaci e Via D’Amelio, con la regia del loro capo, Arnaldo La Barbera, poi deceduto, avrebbero creato a tavolino i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, imbeccandoli e costringendoli a mentire e ad accusare della strage persone poi rivelatesi innocenti: da qui la contestazione di calunnia.

Un castello di menzogne costruito dai falsi collaboratori

Il castello di menzogne costruito grazie ai falsi collaboratori di giustizia avrebbe aiutato i veri colpevoli a farla franca e avrebbe coperto per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano. Per questo ai tre poliziotti la Procura aveva imputato l’aggravante di aver favorito Cosa nostra, oggi caduta. «I plurimi, gravi elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze strategiche di Cosa Nostra, che in quel momento riteneva di vitale importanza», aveva detto la Procura durante la requisitoria.
Solo il lavoro dei pm nisseni e le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, che ha ridisegnato le responsabilità nell’attentato dei clan rimasti fuori dalle indagini, e che ha scagionato gli imputati accusati ingiustamente, ha consentito dunque di arrivare a una verità sulla fase esecutiva dell’attentato. E ha svelato un depistaggio, definito dai giudici dell’ultimo processo sulla morte di Borsellino come il più grave della storia della Repubblica.

La sentenza non chiude il cerchio

Il processo di oggi nasce da qui. Un dibattimento durato quattro anni e cento udienze, fatto di decine di deposizioni e faldoni di migliaia di pagine. Un processo che ha riservato continui colpi di scena e ha fatto intravedere una regia e un piano preciso: inquinare le indagini. Un puzzle che è andato componendosi fino alla sentenza di oggi che, però, ancora una volta, non chiude il cerchio e non restituisce tutta la verità ai familiari delle vittime e all’Italia intera. Non commentano i figli del giudice Paolo Borsellino, Manfredi e Lucia, presenti alla lettura del dispositivo. Mentre è duro il loro legale, l’avvocato Fabio Trizzino. «E’ una sentenza rispetto alla quale è decisivo leggere le motivazioni, ma che va rispettata. Il dato che evidenzio è che Bo e Mattei hanno commesso la calunnia, quindi la prescrizione che nasce da un ritardo dello Stato li salva perchè sono fatti di 30 anni fa, ma l’elemento della calunnia resta», dice. Opposta la valutazione del legale di Mattei, l’avvocato Giuseppe Seminara che, riferendosi all’invio degli atti in Procura per calunnia per Scarantino, deciso dai giudici, sostiene: «Anche in questo processo Scarantino è stato ritenuto un calunniatore».

Il legale della famiglia: «La calunnia ci fu»

«È una sentenza rispetto alla quale è decisivo leggere le motivazioni per capire quali sono gli aspetti che potranno costituire i motivi di appello. Il tribunale non ha accolto la nostra ricostruzione specie rispetto all’aggravante. E’ una sentenza che va rispettata il dato che evidenzio è che Bo e Mattei hanno commesso la calunnia, quindi la prescrizione li salva perchè sono fatti di 30 anni fa, l’elemento della calunnia resta». Lo ha detto l’avvocato Fabio Trizzino, dopo la sentenza del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio. Trizzino difendeva i figli del giudice ucciso il 19 luglio del 1992. «È una sentenza che raccordandosi col verdetto del Borsellino quater ci consente di individuare Bo e Mattei come concorrenti nel reato di calunnia. Il fatto che lo Stato ha esercitato in ritardo la potestà punitiva li ha posti al riparo, però è.una sentenza che non ci soddisfa ma ci prendiamo quel che di buono c’è».

I difensori dei poliziotti: «Non siamo soddisfatti»

«I nostri assistiti sono completamente estranei. Aspetteremo le motivazioni della sentenza per stabilire il da farsi": sono le parole dell’avvocato Giuseppe Panepinto, difensore di Mario Bo, a conclusione della sentenza di primo grado sul depistaggio delle indagini della strage di via D’Amelio che ha stabilito l’assoluzione per uno dei tre poliziotti e la prescrizione per gli altri due. «La sentenza è stata esaustiva perchè ha rinviato gli atti per calunnia per la posizione di Scarantino», ha aggiunto l’avvocato Giuseppe Seminara, legale di Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. «Ritenere in questo processo - ha aggiunto - che calunnia vi sia stata e nello stesso tempo assolvere Ribaudo significa che anche in questo processo Scarantino è stato ritenuto un calunniatore. Il fatto che sia stata dichiarata la prescrizione non significa affatto che noi siamo in presenza di elementi certamente univoci rispetto alla responsabilità di Bo e di Mattei. Dovremo analizzare le motivazioni della sentenza per comprendere qual è il percorso motivazionale. Certamente è stata esclusa l’aggravante. Quindi sotto questo aspetto per quanto riguarda l’agevolazione all’associazione criminale non c'è alcun dubbio secondo questa ricostruzione che anche i nostri assistiti sul punto devono essere ritenuti estranei. Sul resto aspetteremo la motivazione della sentenza e anche se ci fosse un solo pelo che possa turbare l’onore, il decoro delle loro posizioni professionali in 40 anni di attività, presenteremo appello e vedremo cosa ci sarà da fare».

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