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Depistaggio Borsellino, l'avvocato di parte civile Di Gregorio: «Scarantino fu ricattato»

Pronto il ricorso contro la sentenza di assoluzione o prescrizione per i poliziotti. Nel documento anche accuse ai magistrati

L'avvocato Rosalba Di Gregorio

«Vincenzo Scarantino è stato ricattato. Non sopportando le torture del carcere di Pianosa, non sopportando più le continue pressioni esercitate da Arnaldo La Barbera e da Mario Bo, con i colloqui investigativi, quelli autorizzati e quelli “in autonomia”, ha ceduto, finendo per sostenere il ruolo del falso collaboratore». È netto il giudizio dell’avvocato Rosalba Di Gregorio, parte civile al processo sul depistaggio delle indagini sull'attentato al giudice Paolo Borsellino. Di Gregorio, che difende Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana e Cosimo Vernengo, tre degli otto accusati ingiustamente della strage dal falso pentito Scarantino, ha presentato appello contro la sentenza del tribunale di Caltanissetta che ha dichiarato prescritto il reato di calunnia aggravato contestato ai poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei e assolto il terzo poliziotto imputato, Michele Ribaudo.

I tre erano accusati del depistaggio: di aver cioè, su input del loro capo di allora, Arnaldo La Barbera, poi deceduto, costruito a tavolino una falsa verità sull'attentato del 19 luglio del 1992. «Non si può non riconoscere - aggiunge la legale nell’appello - come la natura di soggetti umanamente fragili, in primo luogo e per quanto qui ci riguarda, di Scarantino, di soggetti ricattabili e psichicamente instabili, dediti alla microcriminalità, sia stato il terreno utile e fertile ai "pupari" a sceglierli come pupi da vestire».

«Ma Scarantino - precisa - non è, né è mai stato, un collaboratore di giustizia. Non gli si può quindi chirurgicamente sezionare il narrato con l’applicazione rigida della disciplina relativa ai requisiti di intrinseca attendibilità, perché mancano i presupposti di base: la collaborazione e l’attendibilità». Una conclusione che mira dritto contro le argomentazioni dei giudici che proprio sull'inattendibilità di Scarantino hanno incentrato parte della motivazione della sentenza.

«Nel percorso tortuoso di accuse, di ritrattazioni non possono escludersi spinte esterne, su cui sicuramente non si è indagato», dice a proposito delle testimonianze controverse di Scarantino l’avvocato Di Gregorio, che parla anche di «prove sparite», confronti e intercettazioni nascoste e conversazioni mai registrate.

L’avvocato parla anche di responsabilità dei magistrati, che «erano consapevoli di tante cose - afferma - e come minimo disattenti persino nell’uso distorto di istituti giuridici quali i colloqui investigativi, le intercettazioni fatte e poi nascoste, le mancate verbalizzazioni, i colloqui privi di verbalizzazione, le pause non verbalizzate in alcuni interrogatori e, più generale, nella disapplicazione del metodo Falcone di valutazione della prova, come stigmatizzato anche nel processo Borsellino quater». Per Di Gregorio, «è chiaro che se Scarantino dinanzi al Tribunale ha voluto o dovuto salvare i magistrati del tempo, nel suo modo rozzo e incolto, ha voluto, o forse dovuto, attribuire ai poliziotti l’accusa di avergli fatto credere che i pubblici ministeri erano accondiscendenti ed erano disponibili».

Per l'avvocato, infine, «i comportamenti gravi, posti in essere dagli imputati hanno arrecato un gravissimo danno alle vittime della calunnia. Le odierne parti civili hanno subito una vera propria espropriazione della loro esistenza, attraverso la privazione ingiusta della libertà, della sofferenza fisica e morale della più che decennale carcerazione sotto il regime dell’art. 41 bis. Hanno sofferto l’ingiusto allontanamento dai propri cari l’etichetta di stragisti, danni anche fisici e distruzione totale della propria esistenza, e, di conseguenza, anche di quella del loro nucleo familiare. Ancora oggi sono stati, come cittadini, espropriati di quello che la sentenza definisce diritto alla verità».

 

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