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Il blitz antimafia di Niscemi: il disprezzo del capoclan: «Quel carabiniere è morto? Bello è stato»

Dai colloqui carpiti dagli investigatori anche il progetto di bruciare l’auto a un poliziotto solo perché aveva multato i boss per il mancato uso delle cinture di sicurezza

Alberto Musto, capo mandamento di Gela e reggente di Cosa nostra a Niscemi, non solo provava ribrezzo nei confronti delle istituzioni ma avrebbe anche goduto per la morte di un carabiniere, deceduto a causa di un incidente stradale. E manifesta tutto il suo piacere, nel corso di un dialogo con un suo scugnizzo. Nel corso di una conversazione, Giuseppe Manduca informa il boss di avere appena appreso la notizia della morte di un militare dell’Arma. «Mih…ah questo? M..., non poteva morire prima? Carabiniere era? Bello è stato, lo vedi? Il Signore c’è Pe'».

Una conversazione che dimostra l’avversità che il capomafia e i suoi fedelissimi nutrivano nei confronti delle forze dell’ordine anche perché, nonostante continuassero a sfidare le forze dell’ordine e le istituzioni, in cuor loro, temevano di finire nuovamente in cella, da «innocenti». Il reggente di Niscemi, parlando ancora con il suo affiliato, gli fa presente che bisogna scongiurare un altro arresto. «A me secca, Peppe, mi devo andare a fare altri 10 anni di carcere per m...ate». Osservazione che Giuseppe Manduca condivide: «Pure a me, io senza motivo… Ma come, noi siamo puliti in tutte le cose, siamo stati puliti… c’è qualcuno che parla».

Al suo capo consiglia di non incontrare nessuno e di non andare a nessun appuntamento. «Vattene in piazza», gli dice. Erano ossessionati dalla presenza sul territorio delle forze dell’ordine, anche perché polizia e carabinieri erano presenti in maniera massiccia. Nel corso di un dialogo, Alberto Musto mette in guardia Giovanni Ferranti, un altro suo affiliato, e gli consiglia di prestare la massima cautela, perché nota che il paese è assediato dalle forze dell’ordine: «Dobbiamo stare attenti che c’è la Dda. La Dda... proprio quella di Caltanissetta». «È danno, ci sono indagini».

Ad un assistente capo della polizia, in servizio al commissariato di Niscemi, volevano incendiare l’auto, perché durante un controllo, effettuato mentre Alberto e Sergio Musto erano a bordo di una macchina, il poliziotto e un suo collega avevano contestato loro il mancato uso delle cinture di sicurezza e li avevano multati. Tanto era bastato per provocare l’ira e la furia del boss: «Mi perseguitate, così non si può lavorare, ora me la vedo io con il dirigente del commissariato e in caso anche con il questore, non potete rompere i c… per una cintura, andate a lavorare. D’ora in poi vi faremo correre». Reazione che aveva fatto scattare a carico di Alberto e Sergio Musto una denuncia penale. Il processo è in corso al tribunale di Gela. Al poliziotto, per vendetta, secondo i mafiosi bisognava bruciare l’auto. Tutto era pronto per mettere a segno il gesto intimidatorio. Ma le cose andarono diversamente perché l’attentato incendiario venne sventato dai carabinieri di Gela, che venuti a conoscenza del gesto, informarono il commissariato di Niscemi e quindi l’agente. Ma per il clan era solo un attentato rinviato anche perché il poliziotto era stato trasferito da Gela e Niscemi proprio perché aveva già subito un altro attentato incendiario: «Ora lo facciamo trasferire noi di nuovo». Al fratello dell’agente, anche lui poliziotto, venne riservato un gesto ancora più macabro: davanti all’ingresso della sua abitazione venne collocata la testa mozzata di un maiale.

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